Antonio voltò pagina e proseguì la lettura del libro, sempre più incuriosito. Cominciava un nuovo capitolo della storia, intitolato “Festa al paese”.
Il confuso chiacchiericcio che affollava la piazza fu messo a tacere da un potente squillo di tromba. Anche i più distratti prestarono attenzione dopo che la tromba squillò per altre due volte. Si fece silenzio, tutti puntarono gli occhi al centro del palco di legno dove un anziano barbuto in abiti storici dichiarò solenne: «Che la festa abbia inizio!». Un urlo si liberò dal centro della calca che si era radunata ai piedi della struttura e raggiunse anche i più lontani tra gli spettatori. Poi la folla proruppe in un applauso per celebrare l’inizio del Palio, evento sempre molto sentito dalle persone del posto e capace di attirare centinaia di visitatori dai comuni limitrofi.
Nell’aria si diffuse l’odore dello zucchero filato e degli arachidi caramellati. La banda musicale prese a esibirsi e i venditori ambulanti fecero appello a tutta la propria voce per superare in volume le note della marcia. Un capannello di curiosi si piazzò dinanzi alla bancarella del tiro a segno, ma anche presso il camioncino dei panini si stava creando una piccola fila. Gli ultimi ad arrivare furono un giovane padre e la sua bambina, che teneva per mano. Le stava chiedendo se volesse una porzione di patatine fritte quando un giovane vestito di tutto punto li urtò, facendo quasi cadere la piccola.
«Che modi…» gridò l’uomo in direzione del colpevole, ma l’altro non si era nemmeno fermato e continuava a percorrere la piazza con il suo passo svelto. «Ehi, tu!» gridò nuovamente il genitore, ma per tutta risposta l’altro, ormai lontano, alzò la mano sinistra come a liberarsi di un insetto fastidioso. Il papà preferì non insistere e si limitò a riprendere con la figlia il discorso interrotto dopo essersi sincerato che stesse bene. Fu la scelta migliore. Il giovane frettoloso non avrebbe esitato a dargli il benservito se ce ne fosse stato bisogno.
Normalmente sapeva essere gentile e suadente, e non era abituato ad andare in giro a dar spinte a persone alte la metà di lui, ma in quell’occasione era troppo nervoso per comportarsi a dovere. Negli ultimi giorni i suoi affari non andavano affatto bene. Aveva dovuto sopportare lo scherno di più di un congiurato a causa dell’incompetenza dei suoi sottoposti.
Se vuoi una cosa fatta bene, pensò, devi farla da solo.
Sì, senza dubbio era una frase saggia, ma per niente applicabile nella posizione che egli rivestiva. Si immaginò per un attimo mentre scavalcava un cancello e di soppiatto prendeva a scassinare una serratura. Che sciocchezza. Lui, il conte A., non poteva abbassarsi a tal punto! Doveva dare una strigliata ai suoi uomini, impedir loro di fallire ancora.
Il conte proseguì a camminare con solerzia, perso nelle proprie considerazioni interiori e senza prestar la minima attenzione a quanto gli stava attorno.
Gli sbandieratori avevano appena cominciato a esibirsi e avevano su di loro gli sguardi ammirati di piccoli e grandi; erano arrivati anche i venditori di pop-corn e ciù ciù, ma lui non badava a loro. Era diretto in un’osteria poco distante dal centro della festa: era sicuro di trovarli lì.
La sua meta era un locale fatiscente frequentato per lo più da ubriaconi contenti soltanto di spendere i propri scarsi guadagni in pessimi vini. Un tempo tra gli avventori non era difficile trovare anche famiglie e giovani coppie, ma ormai i dieci tavoli o poco più erano riempiti da tristi e anonime figure desiderose soltanto di un palliativo per lenire rimorsi, solitudini e fallimenti. Quella sera la bettola era frequentata da tre clienti fedeli, gli unici che avevano preferito restar chiusi tra le quattro lerce pareti della struttura piuttosto che assistere al Palio. In realtà la loro intenzione era quella nell’andarci dopo, quando il vino li avrebbe resi più allegri e più vogliosi del calore di una donna.
Ma le cose andarono diversamente rispetto ai loro progetti.
Non appena videro la nervosa figura del conte A. apparire sulla porta allontanarono i bicchieri e gli corsero incontro.
«Come mai…» provò a dire il più alto dei tre, ma venne immediatamente zittito dal nuovo arrivato.
«Siete degli incompetenti! Mi state facendo diventare lo zimbello di Pollena» gridò lanciando una spinta a chi aveva parlato.
«Noi…noi non volevamo!» provò a giustificarsi il più giovane dei bevitori.
«Me ne frego di ciò che volevate! Io voglio i fatti, e voi avete fallito».
«Ma, anche se abbiamo fallito, la gente ora ha paura…» provò ad aggiungere il primo. Sì, la gente di Pollena aveva paura, ma dopo i primi, pochi furti riusciti, i tre uomini assoldati avevano collezionato solo fallimenti, e ormai tra gli abitanti della zona la paura era stata affiancata da qualcos’altro, una sorta di canzonatura per quelli che, ai più, apparivano ladri da quattro soldi.
«Gli altri notabili si sono rivolti a me per questo compito, e voi» si interruppe, fremente di rabbia. Ripensò al consiglio che qualche tempo prima aveva avuto con gli altri due notabili, quello nel quale era stata decisa la cospirazione. A proporla, il vecchio viceré fresco di revoca del proprio titolo. Prima di partire il vecchio re aveva deciso, per ragioni di pace e sicurezza, di cancellare la seconda carica del regno per importanza e abbassare il viceré al rango di notabile. Il conte aveva aderito con entusiasmo alla proposta, e convincere il terzo dei congiurati non era poi stato molto difficile. Da quell’incontro era stata partorita l’idea di destabilizzare la zona sotto il dominio del Re attraverso furti d’appartamento, che avrebbero innervosito la popolazione e minato la credibilità del sovrano. Ma se i furti fallivano, l’effetto desiderato non poteva essere raggiunto, e i notabili non avrebbero potuto prendere il potere.
«Vi dovrei punire severamente» incalzò il conte A., gettando un’occhiata colma di disprezzo alla stanza che lo ospitava.
«Perdonateci. Dateci un’altra opportunità».
«Sì, ve la concederò. Ma non certo perché sono magnanimo. C’è troppo poco tempo per pensare a un’altra strategia».
I tre tirarono un sospiro di sollievo, ma in fondo al loro animo sapevano il rischio al quale andavano incontro. Non potevano fallire nuovamente, questo era fuori discussione.
«Ma non commetterò più l’imprudenza di lasciarvi lavorare da soli».
La notizia colse gli uomini del tutto alla sprovvista. Non ebbero nemmeno il tempo di parlare, tuttavia, che la porta dell’osteria si aprì nuovamente. Un individuo vestito di nero e dai lunghi capelli biondi entrò nel locale.
«Eccovi il vostro nuovo capo» proclamò il conte prima di uscire sbattendo con violenza la porta alle proprie spalle.
Carmine De Cicco
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